L’articolo è apparso originariamente su “Engramma – la tradizione classica nella memoria occidentale” – Luglio 2017.
Co-autore architetto Alberto Anselmi
Quando, circa dieci anni fa, Damien Hirst progettava la sua mostra–monstre come una storia o un percorso attraverso il mito e la cultura pop replicava, in maniera conscia o inconscia, quello che stava avvenendo nel web attraverso la rivoluzione semantica introdotta dai nuovi algoritmi di Google per l’analisi della rete e l’indicizzazione dei risultati di ricerca che portò al de-rank di alcuni dei più noti aggregatori di notizie e a una modifica dei comportamenti SEO così radicale da dare vita a un nuovo modo di intendere il web.
In buona sostanza, quando gli algoritmi di Google, da Panda in poi, incominciarono a chiedere contenuti organizzati logicamente e semanticamente, avviarono un percorso che, dalla semplice gestione delle notizie, ha condotto a quella che è stata definita la rivoluzione dello storytelling. Ecco che Hirst, proprio a quel punto, ha replicato le trasformazioni profonde in corso nel web, realizzando una raccolta che proprio ad esso incessantemente allude, a partire dalla citazione sottile – ma nemmeno tanto – del concetto di rete e di pesca che, con la ‘storia’ del recupero sottomarino, doveva dare un indizio di come certi sommovimenti di cultura pop fossero per lui ben chiari, o – quanto meno – così percettibili da poter informare con la loro attività l’ideazione e la progettazione dell’opera d’arte vera e propria che viene attualmente esposta nelle due sedi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, cioè la mostra stessa.
Se osserviamo la mostra con l’occhio distaccato e scevro da influenze sul costo, sulla popolarità e sugli scopi, attribuiti, forse, più al mecenate che all’artista, l’appartenenza di questa al mondo dello storytelling della rete appare evidente; sia che la si voglia intendere come un omaggio divertito, sia che la si legga come un lacerante tentativo di organizzare il meccanismo della narrazione in qualcosa che organizzato non può essere poiché, come tutto ciò che circola nel web, ha una struttura e uno sviluppo che non appartengono alla logica del prima e del dopo, che non seguono una concatenazione cronologica di eventi ma che, invece, partecipano della decisione del fruitore in maniera determinante, così che ognuno scrive la propria storia seguendo salti logici e semantici implacabili e, ciò nonostante, per definizione pertinenti. Ecco allora Hirst articolare la propria opera – che, occorre ribadirlo, è la mostra stessa – secondo le regole del web, ovvero senza distinzione tra minuscolo e gigantesco, prezioso o di scarto, congruo o incongruo affinché la verità nuda – quella che appare eliminando le sovrastrutture (le concrezioni) e integrando le notizie – sia che tutto è contemporaneamente verità – in quanto esiste – e menzogna – in quanto non verificabile. Un chiaro riferimento, quindi, alle pratiche del clickbait e delle fake news che trasformano la notizia, l’immagine o il filmato in qualcosa d’altro.
Procedendo per questa ricerca delle similitudini, come non notare che la mostra è multidisciplinare, preceduta da contenuti video che – come nelle best practice della rete – sono disponibili per chi li voglia cercare con l’intento di approfondire ma non indispensabili alla comprensione del contenuto? Ecco allora che nel grande corpo unico di una mostra che è opera d’arte e performance al tempo stesso sono esposti, quasi miti tangibili, i contenuti più navigati della rete, come se la loro trasformazione in oggetti tridimensionali gli restituisse quella dimensione che, nella dispersione del web, si stava perdendo: un amoroso recupero di storie oltre che di umanità lussuosamente disumanizzata. Pertanto, se leggiamo in filigrana il titolo della mostra, vien da sorridere a una così esibita dichiarazione di intenti “tesori del naufragio dell’Incredibile” è una buona – anzi ottima – definizione di quello che è il web: un oceano nel quale molto è naufragato e molto appartiene all’area dell’incredibile.
Soltanto per porre l’accento su alcuni dei temi più clamorosamente presentati da Hirst:
• Il mito, che nel web acquisisce due dimensioni principali: quella del mistero e quella della familiarità; da un lato profezie Maya, mostri marini, testimonianze di incontri con l’iper-realtà del mostro della palude o dell’uomo mosca che attingono a un substrato culturale che mescola Lovecraft con i tabloid senza chiedersi e senza dare importanza alla credibilità di quanto viene esposto; dall’altro la vicinanza con i protagonisti, dai cantanti pop ai Transformers. Tutto ciò che appartiene al mondo del mito, strappato all’oceano dell’incredulità, viene sciorinato senza soluzione di continuità, pertanto il naufragio dell’incredibile accomuna Pippo e Pharrell Williams in un mondo che è quello delle storie non vere ma verosimili, quindi accettabili, googlabili. Tra calendari Maya che preludono alla fine del mondo e spade arrivate direttamente dal set di Conan il Barbaro la mostra è stata spesso definita come una Hollywood senza attori, scordando che – se è un film – è un film autoprodotto e veicolato attraverso Youtube più che nelle sale cinematografiche. Alla dimensione del mito appartiene, come scordarlo, anche il tesoro. Cosa c’è di più mitico di un tesoro dal valore incalcolabile, gemme, oro, pietre preziose e reperti così costosi da riecheggiare da un lato la caccia al tesoro e dall’altro la sfilza di imitazioni low cost che ci seducono dalle vetrine dei siti più disparati? Se c’è un omaggio al collezionista che ha voluto la mostra è nella scelta del lusso come oggetto che appartiene al mondo, che può essere desiderato, esibito, ricercato ma non impossibile o irraggiungibile;
• Il gioco, gioco di ruolo o caccia al tesoro, la mostra richiede a gran voce di partecipare. Per partecipare del concetto base del game, ovvero la “sospensione dell’incredulità” allo scopo di essere – che è la sola via per partecipare fino in fondo –, si deve abdicare alla logica di quel che sappiamo per approdare all’accettazione di tutto ciò che si racconta come reale, o meglio ancora, realistico. Il gioco come travestimento e metafora del reale – illustrato dall’autoritratto dell’artista nell’identica posa della statua di Walt Disney che accoglie i visitatori del parco divertimenti tenendo per mano un personaggio inesistente ma reale come Topolino – allude ai luoghi dove la sospensione dell’incredulità è parte fondamentale del sacrosanto diritto del fruitore di divertirsi credendo che ciò che vede è reale, ben sapendo che non lo è. Il gioco della caccia al tesoro, quindi, è quello di Hirst con la collezione di Cif Amotan II a cui il visitatore partecipa attraverso i documentari, ma soprattutto attraverso l’uso dello strumento radiografico – realtà aumentata – che consente di ispezionare il modellino ricostruito dell’Umbelievable in cerca di ciò che si è già visto o che si potrà – forse – ancora vedere. Come fu caccia al tesoro quella – reale! – che intraprese lo schiavo liberto per radunare la propria collezione, o quella del visitatore divertito per cercare i riferimenti, le epoche e le citazioni cui rimandano i singoli – autentici! – reperti;
• La critica, da ultimo, è, senza dubbio, l’aspetto propriamente monumentale dell’opera. Sottesa e feroce, animata dalla consapevolezza del proprio ruolo, la critica di Hirst è un modo per ricordare – quasi un’insistita glorificazione – che se è vero che viviamo un mondo di storie fabbricate e trasmesse al di là della menzogna e della verità, queste storie non possono esistere senza la pratica artigiana e consapevole della loro realizzazione. Le lavorazioni raffinate, le concrezioni imitate sino all’ultimo dettaglio spasmodico, la celebrazione del restauro con le opere mostrate – gioco di concetti su gioco di concetti – snudate delle sovrapposizioni, ripulite e ricostruite, sono un modo sottile per ricordare, a chi osservi con occhio partecipe, che non c’è storia raccontata, non c’è mito e non c’è gioco che possano prescindere dalla capacità umana di fare e di credere.
Nessuno, dei tre temi presi ad esempio, può definirsi nuovo o sorprendente. L’intera mostra rievoca tanto le Metamorfosi di Ovidio quanto i peplum cinematografici, e sarebbe divertente pensare che la scelta di Venezia quale sede espositiva possa avere qualche relazione con la sua attestata vocazione cinematografica se non, addirittura, con la sua stessa natura, così miracolosamente distante dal contatto con la terra, da consentire a una delle più celebri capitali del commercio mondiale di coltivare per secoli il mito della propria verginità, e ciò assai prima delle romantiche mitizzazioni di Ruskin o di Byron. Il gioco della caccia al tesoro, poi, è, in prima istanza, proprio quello più noto e immediato, ovvero l’ossessiva bulimia collezionistica da Wunderkammer, nella quale è raramente possibile distinguere tra l’infantile piacere delle mirabilia – meglio se costose e impressionanti – da rintracciare per poi vantare, e quello, irrazionale, dell’inattingibile tassonomizzazione di ogni conoscenza in un folle archivio dell’universo come quello che dava il titolo proprio a una scorsa, magnifica, Biennale veneziana. Che la consonanza tra il progetto di Hirst, documentato – pare – a partite dal 2008, ed il Palazzo Enciclopedico di Gioni del 2013 sia una semplice coincidenza oppure una misteriosa affinità ‘elettiva’ di entrambi verso più o meno connotate licoressie, o, ancora un segnale, un sintomo, una sotterranea vibrazione – che ambedue come sismografi, avrebbe potuto dire Warburg, registrano per primi – è, a buon diritto argomento d’un ulteriore gioco ancora. E, da ultimo, l’intonazione della critica che, così come più sopra rilevata, non può evitare di venir posta in relazione a quella platealmente impalcata dal giovane Baudelaire circa 150 anni or sono quando, attardandosi en flânant per i passages parigini guantato in indumenti sartoriali accuratissimamente confezionati con tessuti preziosi e colorati, esibiva, nell’estenuato dandyismo, una propria critica all’epoca dell’industria che, in quel mentre, dava nuova forma alla città. “Non c’è modernità che possa prescindere dalla paziente capacità umana di fare”, parrebbe urlare Hirst citando Baudelaire i cui versi sembrano riecheggiare in ogni angolo del fantasmagorico allestimento di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Familiare è lo schema, già nota la struttura del racconto – quasi che il gioco del vedere e riguardare sia parte della performance inscenata da Hirst – nuovo è, però, l’oggetto, ovvero altra è la modernità presa di mira. E mentre il Voyage declinato in versi da Baudelaire in una nuova Parigi di ciminiere ferro e bulloni si conclude “Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!”, il sontuoso naufragio nel web di Damien Hirst non si sposta da se stesso, impigliato nella sua stessa rete, obliterando ogni possibile, illusoria speranza.