Una storia vera, come avrebbe dovuto andare.
Tra le molte cose che gli erano state levate rimaneva l’allegra ribellione del capriccio come ultima diga dell’orgoglio: la crisi e la sfiga avevano spazzato via quasi tutto il resto, e ad aggravare il carico ci si era messa l’oltraggiosa assenza di santi in paradiso che potessero rendergli giustizia.
Sparito l’incarico all’Università sotto i colpi di stacchi di gamba più intriganti dei suoi polpacci da terzino, s’era stretto con la compagna ad attendere che qualcosa cambiasse tra piccoli riti e vezzi: e come in tutte le storie che si rispettano quella che segnò l’inizio del cambiamento fu il ritrovamento di una gattina sparuta e bellissima, probabilmente siberiana, che dalla data prese il nome di Caterina Primavera.
Primavera portò nella vita e nei sorrisi dei due la tenera eleganza dei gatti, resa accattivante all’inizio dalla morbidezza irresistibile dei cuccioli: una gattina minuta, destinata a non crescere, a essere particolarmente schizzinosa, a fare da silenziosa presenza rassicurante all’abisso di un futuro che sbadigliava minaccioso.
Il capriccio ribelle si consumò nel corso di una visita appassionata a un robivecchi: si può risparmiare sul filetto e l’orata, ma come resistere, se sei un architetto, a girovagare tra bric à brac e ricordi anni ’60 alla ricerca di tesori sconosciuti ? E così i due, usciti dal discount, si ritrovarono a vagabondare in un mondo di vecchie Gucci, coperte militari e vetrine con soprammobili di dubbio gusto, tra i quali spiccavano bomboniere nuziali degne di una telenovela: tra questi soprammobili c’era lui.
Quando lo vidi per la prima volta, dopo aver sentito la cronaca del fortunato ritrovamento, ebbi qualche esitazione: a vederlo non l’avrei pagato 10 euro, e ammetto che sembrava in tutto e per tutto uno di quei soprammobili che si ereditano e non si ha il coraggio di buttare; scoprire che era stato pagato la somma necessaria a un mese d’affitto mi lasciò perplessa, fidandomi comunque dell’istinto dell’architetto che aveva in quel momento sotto la barba bionda la stessa espressione di un gatto che ha catturato un canarino particolarmente in carne.
Del cinese blu mi raccontò la storia, scandita da dimostrazioni sotto forma di disegni e fotografie, con la passione affabulatoria che ha sempre avuto, e che trasformava la sua voce di baritono in un virgilio in grado di farti attraversare affascinato la lunga storia del vetro: con Primavera in braccio raccontava di un giovane Scarpa arrivato alle vetrerie di Venini che disegnava questi strani vasi incamiciati la cui realizzazione pare fosse un capolavoro di tecnica, battezzando la serie come cinese per i riflessi delle colorazioni che dovevano ricordare le antiche dinastie. Confesso che ascoltare la storia e guardare il vaso dava una vaga sensazione di vertigine: una storia tanto affascinante per un vaso che a vederlo pareva una bomboniera di dubbio gusto, a chi come me di design non ci capisce nulla. Fu poco dopo l’acquisto del Cinese Blu che Caterina venne data in sposa, e dal matrimonio arrivarono 3 minuscole, ronfanti, adorabili delizie con gli stessi modi e la medesima grazia della loro affascinante madre.
Nello stesso periodo l’architetto riuscì a raggiungere il collezionista: lo chiamo così perchè non è un uomo, ma l’epitome di tutto quello che pensiamo quando usiamo l’espressione. Così ricco da vivere in un palazzo affacciato sullo sciabordio delle onde nel Canal Grande, così avaro da viverci in 3 stanze, così ingordo nel desiderio di possedere tutto e così furbo da farsi fregare solo da sedicenti esperti, possedeva – e possiede – forse una delle più belle collezioni di vetri moderni che si conosca, e – ovviamente – voleva il Cinese Blu.
Mentre le trattative per quel singolo, perfetto, unico vaso – che ai miei occhi restava un soprammobile da fiera – proseguivano a colpi di expertise, il collezionista chiese ed ottenne uno dei figli di Primavera: una elegante signorina dalle lunghe zampette ballerine che venne trasferita in pompa magna nel palazzo, dove imparò a scorazzare da regina tra collezioni mirabolanti e cuscini in velluto Fortuny. La chiameremo Aglaia, per darle un nome diverso da quello dell’ottuso collezionista che consapevole del fatto che un tesoro ha lo stesso valore della necessità di chi lo possiede, trascinava la trattativa con i tempi e i modi di chi sa che comunque l’avversario non può che uscire sconfitto nella logica del denaro, del tempo e del potere.
L’architetto si arrese, in effetti, non tanto all’offerta al ribasso che non solo deprezzava il vaso, ma in qualche modo cancellava con l’arroganza del denaro la sua capacità di riconoscerlo nella polvere e attribuirlo: una resa legata a una banale questione di cinghia del motore dell’auto, bisognosa di cambio, che lo indusse a rivedere le sue priorità e a consegnare il suo tesoro, bene imballato in carta a bolli, nel palazzo sulla riva del Canal Grande.
Una transazione durante la quale scorgeva, nei lineamenti del collezionista, la luce volgare del potere e l’ansia del possesso alternarsi nella compilazione dell’assegno: che intascò senza nemmeno guardare, firmando l’accordo che sanciva il passaggio di proprietà.
Una luce che si faceva becera quando sotto i suoi occhi il collezionista dispose il Cinese Blu sullo scaffale dove – lui lo sapeva – teneva i vetri di maggior pregio, quelli più rari e preziosi, come per segnare con quella disposizione il trionfo della sua avidità sulle priorità economiche.
Un trionfo, in realtà, abbastanza effimero: l’elegante Aglaia ci mise lo zampino: un balzo elegante, un lampo grigio perla nell’aria e un morbido colpetto di zampina mandarono in cocci, senza alcun valore, il Cinese Blu.
Ma in fondo, non era più un problema dell’architetto.
Questa è parzialmente una storia vera. In realtà, il Cinese Blu è ancora saldamente nelle mani del suo scopritore, come fa parte della sua famiglia la bella micia. Il resto è verità.