Lei collezionava torti come conchiglie, restando ad ascoltarne il suono di mare quando rimuginava intorno a vecchie questioni, vecchie storie, vecchie invidie: aveva la certezza che i torti, se ben custoditi, rappresentassero un tesoro d’esperienza con il quale si poteva pensare di esser fonte di saggezza, così che li usava come parabole esemplificative delle sue querule raccomandazioni.
Fu il motivo principale per il quale restò sola, alla lunga: a chi poteva davvero interessare il racconto di chi non aveva vissuto, patito, esperimentato se non attraverso il livore di non occasioni mal generate ?
Fu così che il suo rancore, tanto sterile da non saper nemmeno mutarsi nella fiamma gelida dell’odio, andò alla gattara: in realtà aveva un nome, che lei conosceva per una vita trascorsa siepe contro siepe a scambiarsi saluti rigidi e commenti sul tempo, ma con l’andare degli anni per lei era diventata semplicemente – e con forte accento dispregiativo – la gattara.
Diceva – a chi la stava ad ascoltare a scopo mercenario, la domestica a ore, il panettiere, il verduraio – che era diventata così stramba e tanto attaccata ai gatti da quando aveva perduto tutti i soldi che aveva da parte per i begli occhi di un bancario appena arrivato in città, che dopo averla convinta a costruire con lui una vita migliore attraverso – si sa – un conto intestato ad entrambi, si era volatilizzato lasciandola sola, disperata e matta.
Certo era parso un signore, quando si era presentato nella filiale della banca, arrivando ad inchinarsi leggermente e a raddrizzare con dita esperte la cravatta, così che fosse perfettamente a piombo: vera immagine di un gentiluomo d’altri tempi, fino alla passeggiata domenicale con la quale si distraeva, e che negli ultimi tempi aveva fatto reggendo premurosamente al braccio la gattara.
La scomparsa dell’uomo, accompagnata dalla notizia che la sera precedente aveva ritirato per contanti tutta la somma depositata da entrambi nel famoso conto, aveva rimbambito la gattara, diceva la donna, muovendo le labbra nel raccontare come chi assapora un bonbon particolarmente gustoso: tanto che dopo una vita passata a vegliare gli anziani genitori, curare il bel giardino della villa, ricamare e occuparsi della pulizia dell’oratorio, si era messa a viaggiare, tornando dall’estero ogni volta con improbabili tesori.
Ora un gran cappello messicano di paglia che indossava quando strappava le erbacce alla siepe, oppure zoccoli olandesi, o ancora orecchini di filigrana tanto grandi e sottili da sembrare due centrini all’uncinetto appesi alle orecchie. Con il tempo aveva smesso di viaggiare – o aveva finito gli ultimi soldi, commentava soddisfatta la vicina – e aveva dovuto fermarsi nella vecchia casa che andava lentamente sfacendosi all’umido delle nebbie padane: il muschio cresceva sugli angioletti di pietra a guardia della scala, e tra le fessure del vialetto si aprivano voragini di radici a spinger in alto la pavimentazione, sconnettendola. In quel giardino che si andava inselvatichendo era arrivata una gatta con la pancia che strisciava a terra da quanto era incinta, si era stesa al sole ansante e aveva partorito là, tra pietra e erbacce, almeno 5 gattini.
I micetti erano cresciuti, ne erano arrivati altri, e altri ne erano nati: così la colonia della gattara contava almeno una trentina di esemplari, tra ospiti e fissi, che si aggiravano come piccole tigri nella giungla di cespugli, occhieggiando di malanimo chi si azzardasse a entrare, nutriti, accuditi e vezzeggiati dalla gattara che per tutti aveva un nome, del tempo, carezze, cibo e sorrisi.
Ovviamente l’arrivo della pubblica sicurezza fu interpretato da tutto il quartiere come il risultato del malanimo invidioso della vecchia, che doveva aver denunciato la presenza di gatti, gattini e gattoni in un giardino privato: e ovviamente il quartiere aveva perfettamente ragione. Per questo il nuovo torto subito dalla vecchia fu un richiamo da parte dell’autorità a non infastidire gli agenti con richieste immotivate, perchè venne fuori che erano gatti vaccinati, controllati, e regolarmente dotati di libretto sanitario: una pila intera, consegnata dalla gattara agli addetti con un sorrisino di trionfo divertito che non era sfuggito ai più attenti.
Poi i gatti iniziarono a morire: di punto in bianco venivano a tirare l’ultimo fiato in braccio alla gattara, guardandola con occhi grandi e appannati, pieni di domande, e tendendole la zampa per posarla sulle guance dove correvano lacrime senza vergogna.
Morivano di veleno, e non ci voleva un genio per fare due più due, come lo fece tutto il quartiere, mentre unanimemente la vecchia veniva impiccata al suo malanimo: il giornalaio arrivava sempre tardi, al verduraio mancava la sua insalata preferita, la donna delle pulizie bruciava per errore una camicia stirandola, persino il parroco pareva sempre di fretta e malmostoso. Mano a mano che i gatti si ammalavano, cresceva il numero dei piccoli fastidi che rendevano pungente anche lo star seduta della vecchia, che infine decise di prender la questione di petto, e vestita come per le grandi occasioni si presentò alla porta della gattara, aprendo e chiudendo febbrilmente il fermaglio della borsetta.
Accolta in una casa che odorava fortemente di gatto, dando la sensazione che ogni poltrona fosse stata utilizzata come cassetta, sedette sull’orlo della poltrona a ginocchia unite, spiegando che lei non aveva avuto alcuna intenzione di far del male ai gatti, e aveva saputo da poco della triste faccenda: l’unica sua colpa era stata l’aver seminato alcuni bocconi avvelenati non certo per far male ai felini, ma per ridurre la proliferazione di una colonia di ratti che le minacciava travi e dispensa.
La gattara annuì gravemente alla rivelazione, armeggiando in cucina in un acciottolio di stoviglie prima di comparire con un gran vassoio carico di tazze, biscotti e zuccheriera, sul quale troneggiava la cuccuma. Dopo aver versato il caffè, e averlo zuccherato abbondante, come piaceva alla vecchia, facendo scivolare nella bevanda tre cucchiai pieni di polvere, sedette e sospirò, guardando la vecchia sorseggiare dalla tazza. “Anche il povero Arturo, signora, non amava i gatti. Una vera disperazione, perchè quando già pensavo di prenderlo in casa, e avevamo messo insieme il denaro per far qualche lavoretto, mi è venuto a dire che non dovevo nemmeno pensare ai gatti, che lui era allergico da sempre e in più odiava lo sguardo di queste povere bestiole. E’ stato quello, vede signora, che mi ha convinto.
Perchè quando parlava dello sguardo dei gatti aveva lui un occhio maligno, lo stesso del mio povero papà quando parlava di una sorella suora laica e mi fissava. Che ha smesso quando gli ho dato un po’ di più della medicina. La sera che dovevamo dar i soldi all’impresario Arturo ha riattaccato con la storia dei gatti, perchè ce n’era uno in giardino: è uscito che pareva matto, con quegli occhi strani. Per farlo star buono ho detto si, e poi gli ho fatto un caffè.
A me il caffè viene bene, e lui l’ha bevuto da ghiottone.
Il difficile è stato seppellirlo: pesava tanto che portarlo in cantina ce n’è voluta, e son stata via da casa abbastanza a lungo che l’odore è andato tutto via. Ma lei, signora, non si deve preoccupare. Pesa tanto poco che non sarà troppo faticoso” concluse sorridendo con aria allegra, guardando la vecchia morire con la stessa intensità di un gatto.